mercoledì 30 gennaio 2013

TRATTATO DI PACE MONDIALE

Io sottoscrivo il  TRATTATO DI PACE MONDIALE


da Iniziativa della Keshe Foundation 
 

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TRATTATO DI PACE MONDIALE
“Noi/io come cittadino/a/i della Terra da questo momento in poi accetto di deporre tutti gli strumenti di aggressione e di guerra, di pensare di non essere mai più coinvolto/a/i o di incitare alla guerra o sviluppare o utilizzare strumenti di guerra su questo pianeta o nello spazio, e per questo noi/io siamo/sono d’accordo e giuriamo/giuro con il nostro/i/mio/miei (Cancellare la menzione inutile) nazione, territorio, consiglio, religione, città, città, corpo/i e l’anima/e. “
Nome ...................................................................................
Firma ...................................................................................
Data .....................................................................................
Posizione .............................................................................
A nome della seguente Nazione, territorio, consiglio, religione, città, città, o individuale ..............................................
Testimone Assistente
Nome .................................................................................
Firma .................................................................................
Data ...................................................................................
Carica ricoperta ...............................................................
Dopo aver firmato questo trattato, siate orgogliosi di mostrare il certificato dove si pensa sia importante per te così che tutti possano vedere e conoscere l’ethos di altri uomini e l’umanità e le altre bellezze create dal creatore.

martedì 29 gennaio 2013

..americani... brava gente

Copio questo post dal blog di Paolo Barnard sulla strage di El Mozote ... per futura memoria.
Da http://paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=553

Questo è il mio Giorno della Memoria.

(Tratto da “Perché ci Odiano”, di P. Barnard, Rizzoli BUR 2006)
“Quella sera di dicembre del 1981 le truppe d’elite salvadoregne del battaglione Atlacatl si trovano impegnate in manovre di contro insurrezione nella provincia di Morazàn, di cui il villaggio di El Mozote fa parte; ufficialmente la mira era di stanare alcuni membri del FMNL dai loro covi montani. Rufina Amaya era nella sua casa, con i suoi figli, molti altri stavano tornando dalla chiesetta edificata su un lato del piazzale al centro di quello sperduto borgo contadino, faceva freddo. L’irruzione dei soldati fu improvvisa: “Dapprima i militari ci tennero tutti distesi a pancia in giù, poi le donne furono portate in due case diverse, quella di Marques e quella di Benita Dias; gli uomini furono portati in chiesa, e così ci fecero passare la notte”, inizia questa donna che proprio non ha  nulla nell’apparenza che possa tornarmi utile per descriverla. E’ ordinaria, lunghi capelli ancora neri raccolti in una coda di cavallo, volto tondeggiante, bassa, sovrappeso, occhi che esprimono nulla. Ed è questo che colpisce: gli occhi di chi ha vissuto l’inimmaginabile forse sono sempre così, uccisi da ciò che hanno visto.

Rufina continua, la voce in una sorta di cantilena: “La mattina seguente arrivò un elicottero e cominciarono a torturare gli uomini. Poi a mezzogiorno cominciarono con le donne e lì iniziò la strage.”  Dapprima i soldati fecero fuoco all’impazzata su qualsiasi cosa si muovesse, e infatti ancora oggi quella parte di El Mozote è rimasta così, congelata nel tempo, con i muri crivellati di proiettili, le rovine delle abitazione bruciate, persino gli oggetti di casa ancora sparsi, derelitti e arrugginiti, nelle aie abbandonate; un luogo plumbeo, morto anch’esso e che nessuno da allora ha mai più voluto riabitare. Poi tacquero le mitraglie e fu la volta dell’orgia di violenza all’arma bianca. Rufina: “Io avevo i miei tre figli intorno, tra cui una bimba che ancora allattavo, me li strapparono, così come fecero con le altre madri, e li portarono tutti nella chiesa. Io li sentivo urlare… ‘mamma, mammina aiutaci, ci stanno uccidendo con i coltelli…’”.

Furono sgozzati tutti, quattrocento bambini sgozzati dentro una chiesa. I filmati del ritrovamento dei corpi mesi dopo, che ho ottenuto, mostrano i volontari in guanti di lattice e mascherine sollevare dal terreno minuscole vesti, magliette e calzini come fossero rigidi cartoni incrostati di nero, il sangue rappreso, e lascio ai lettori immaginare cosa mostravano le fotografie del pavimento della chiesa scattate dai primi testimoni giunti sul luogo. Fra loro Santiago Consalvi, un giornalista oppositore del regime, che commentando quelle scene una sera a cena con me e con sua moglie ha solo sussurrato “Dantesche…”, senza aggiungere altro.
Rufina Amaya a quel punto si trova ultima nella fila delle donne inginocchiate che vengono uccise una a una con colpi alla nuca o semplicemente accoltellate. Intorno a lei cadaveri, grida, esplosioni, il fuoco della case cosparse di kerosene, animali domestici che galoppano col pelo in fiamme, il terrore che non si può immaginare.

Ancora potevo udire le grida di qualche bambino, forse i miei bambini, ma che potevo fare? Pregavo Dio che mi perdonasse, o che mi salvasse, pregavo e piangevo. Poi vidi dietro di me del bestiame misto ai cani, raggruppati fra le piante lungo quel sentiero lì” e me lo indica, una stradina che costeggia un rudere delimitata da una vegetazione cespugliosa, caotica e assai alta, “e approfittai del buio per nascondermici arrancando a gattoni. Rimasi laggiù non so per quanto, ma i singhiozzi che mi uscivano erano troppo acuti, mi avrebbero sentita prima o poi, e allora scavai con le mani un buco nella terra, vi ficcai la testa, e iniziai a urlare.”

Quando molte ore dopo Rufina Amaya tentò di uscire dai cespugli fu immediatamente vista. Le spararono addosso, ma lei si gettò di nuovo nel verde e iniziò a correre nel fitto della boscaglia. Per sei giorni rimase a vagare come un animale, poi fu raccolta da una contadina che viveva con i figli in una grotta in condizioni poco migliori delle sue, ma le salvò la vita.
Al termine di quarantotto ore di orgia di violenza, i terroristi del battaglione Atlacatl sterminarono ottocento abitanti di El Mozote, e cioè tutti meno Rufina, e altri quattrocento nei dintorni. Mille e duecento vittime civili, contadini, donne e bambini, neppure un guerrigliero fra loro.

La donna che mi ha raccontato tutto questo ora si alza e mi fa cenno di seguirla. Poco distante si ferma e punta il dito contro un portone che ancora è retto da un muro bruciato e in cima al quale qualcuno inchiodò un asse di legno con una scritta, anzi, una firma. Armando (il mio interprete e autista) traduce quelle parole che furono evidentemente scarabocchiate con un pezzo di carbone: “Qui è stato il battaglione Atlacatl, il padre dei sovversivi, seconda compagnia. Avete fatto una cagata, figli di puttana. Se avete bisogno di palle chiedetele per corrispondenza al battaglione Atlacatl. Gli angioletti dell’inferno.

Ebbene, i terroristi delle truppe d’elite Atlacatl, gli psicopatici capaci di fare questo a 400 bambini e a 800 civili inermi, ebbero un sostegno diretto, ripetuto e consapevole proprio dalla nazione che oggi si è posta alla guida della Guerra al Terrorismo, gli Stati Uniti d’America. Le prove di ciò sono schiacciati, nero su bianco ed è un misto di perseveranza e fortuna che pochi giorni dopo il mio incontro con Rufina Amaya io me le ritrovi fra le mani.

In compagnia di Armando mi ero ficcato negli archivi sotterranei dell’Università Cattolica di San Salvador, dove una giovane e distratta responsabile aveva ascoltato la mia richiesta di saperne di più su El Mozote e senza spostarsi di un passo dal ventilatore che la rinfrescava mi aveva solo indicato una stanza a destra in fondo al corridoio, bofonchiando “là ci sono pile di carte lasciate da un ex professore che non so dove sia finito. Nessuno le ha mai più toccate”. Ci troviamo in uno stanzino di due metri per quattro, con una scrivania di metallo spoglia, due sedie e sei pile di scatoloni grigi che in realtà erano neri ma la pasta di polvere che li ricopre gli ha cambiato colore. Mani che diventano subito carboni, caldo soffocante, decine di pacchetti di fazzolettini di carta usati per poter toccare i fogli senza lordarli, acqua, tanta. Ma all’apertura del quarto scatolone arriva la sorpresa. Dopo aver scartabellato articoli e altra roba di nessun interesse, mi ritrovo fra le mani qualcosa di familiare: i fogli fotocopiati con le classiche rigone nere che cancellano nomi riservati, con il timbro “Classified e la firma del funzionario responsabile, con “fm Embassy to Secstate in Washington D.C.”, oppure ancora “Confidential, Action Copy Telegram, Top Secret”, insomma documenti di Stato americani presi direttamente dagli archivi dei Servizi presso l’Ambasciata USA in Salvador e di cui quel professore era venuto in possesso chissà come.

Il problema, che stempera subito il mio entusiasmo, è che sono migliaia, senza un ordine di date e soprattutto trattano di argomenti di una noia mortale, pedissequamente riportati dagli agenti americani per riferire, per esempio, di quell’articoletto apparso sul tal periodico salvadoregno e che parlava del tal funzionario, di quell’incontro fra il tal businessman e quell’oscuro burocrate di ministero, dell’opinione dall’addetto alla propaganda dell’ambasciata sulla maggiore o minore simpatia espressa dal New York Times per le politiche americane in Salvador o in Honduras.

Io e Armando ci passiamo due pomeriggi e una mattinata senza cavarci alcunché di interessante, e l’unica cosa che mi sorregge è vedere l’entusiasmo di questo meccanico che sta ritrovando un acceso e commovente patriottismo nello sdegno che lo va man mano assalendo mentre, nel seguirmi lungo la mia ricerca in Salvador, è ritornato in contatto con il passato di orrori politici che ha terrorizzato la sua gente per decenni. Lui era solo un ragazzino all’epoca, ma ora mi racconta di come ogni mattina quando si recava al lavoro usava tenere la testa bassa e gli occhi puntati sulla punta delle sue scarpe per non vedere i cinque o dieci cadaveri abbandonati che sempre punteggiavano il percorso da casa all’officina, e che corrispondevano ad altrettante raffiche di mitra udite nella notte. Corpi magari nudi e mutilati dalla tortura, con i testicoli carbonizzati, con fori da trapano nelle braccia o con i solchi dell’acido versato fra le natiche. Armando dice il vero, le foto di quelle atrocità riempiono gli archivi del Rehabilitation Center For Torture Victims di Copenaghen , della Medical Foundation di Londra o di Amnesty International. E non di rado erano giovani donne, cui veniva mozzata la lingua perché le loro grida non demotivassero gli uomini e i cani che le violentavano prima di torturale. Così finivano gli oppositori dei regimi latinoamericani, dal Salvador al Cile, dall’Argentina al Paraguay, ridotti in quel modo da chi “dedicò il suo lavoro alla causa del progresso e della pace..”, e cioè dai Dan Mitrione dell’America nemica giurata dei terroristi, e dai loro allievi aguzzini.

Alla sera del terzo giorno la fortuna ci bacia in fronte. Il nome Morazàn compare per primo in un memorandum Top Secret, poi El Mozote e tutta la storia. E con essi la prova che gli Stati Uniti non solo finanziarono e addestrarono il battaglione Atlacatl, ma seppero del terrore di cui erano capaci, tentarono di negarlo e continuarono imperterriti ad armarli e a proteggerli.
Nel memorandum segreto che il sottosegretario alla Difesa Carl W. Ford spediva nell’aprile del 1990 in risposta alle interrogazioni all’Onorevole John Joseph Moakley in Campidoglio si legge: “..Il battaglione Atlacatl fu in effetti addestrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981. Furono addestrati un totale di 1383 soldati. L'addestramento fu condotto nel Salvador.” Ricordo che l’eccidio di cui fu testimone Rufina Amaya era avvenuto nel dicembre di quell’anno.
La strage di El Mozote fu resa nota al Dipartimento di Stato a Washington nel giro di pochi mesi, ma nonostante ciò l’appoggio americano ai terroristi dell’Atlacatl non cesserà e durerà per altri 8 anni, fino al 1989 quando lo stesso battaglione firmerà un’altra strage, quella dei 6 intellettuali gesuiti e delle due perpetue, massacrati nei locali dell’Università Cattolica nel centro della capitale. Su quel periodo il memorandum di Ford infatti dichiara: “All’interno della valutazione del distaccamento, abbiamo addestrato 150 soldati del battaglione Atlacatl. L’addestramento fu interrotto il 13 novembre del 1989.

Il cinismo e la menzogna che seguirono, e in cui il governo americano e la giunta salvadoregna fecero a gara per distinguersi, sono testimoniati da un altro documento riservato che un diplomatico americano in Salvador spediva al Dipartimento di Stato nel febbraio 1982. Vi si legge dei tentativi dell’ambasciata statunitense di verificare le voci insistenti che parlavano di una immane strage a El Mozote, e il diplomatico mostra tutta la sua abilità nell’esser riuscito a fare domande scomode ai vertici militari di quel Paese pur rassicurandoli appieno sul continuo appoggio americano. Infatti, egli informa i suoi superiori a Washington di aver notificato al Generale Garcia (l’allora ministro della difesa salvadoregno, nda) che “Tom Enders ha difeso di fronte al Congresso lo stanziamento di altri 55 milioni di dollari in armamenti al Salvador” e poi sempre riferendosi a Garcia aggiunge: “Mi ha detto che la storia di Morazàn e di El Mozote è una favoletta, è pura proaganda marxista senza fondamento. Gli ho risposto che è chiaramente propaganda, sapientemente costruita... E come zuccherino finale, gli ho ricordato che il Washington Post sostiene le nostre politiche comuni.

Questi documenti provano per la prima volta l’appoggio americano ai terroristi di El Mozote. Tuttavia l’idea, incessantemente ribadita da fonti statunitensi, che il terrorismo neo-nazista delle dittature latinoamericane fosse inventato da una “propaganda marxista sapientemente costruita“ fu l’ostacolo principale che Rufina Amaya incontrò, anni dopo, quando trovò abbastanza forza per raccontare ciò che aveva vissuto. Prima di lasciarla davanti alla porta della sua casa di mattoni grezzi, le avevo chiesto che ragione si era fatta di quel massacro e cosa pensasse del coinvolgimento americano, alla luce del fatto che proprio quel Paese si era poi posto alla guida di un Guerra al Terrorismo.
L’esercito venne qui per un solo motivo”  mi rispose sicura, “ed era di creare terrore. Il terrore non serviva per colpire la guerriglia, serviva a evitare che noi contadini ci organizzassimo. Ma il massacro degli innocenti, qui, ottenne il risultato opposto”. Rufina sembrò non voler rispondre alla seconda parte della mia domanda, e  gliela ripetei. Si girò verso di me e guardando in basso aggiunse: “Sì, potrei chiamarli terroristi, perché vengono nei nostri Paesi con il loro potere grande e fanno queste cose e le fanno in tutto il mondo. Ma per me sono semplicemente degli assassini.”
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In memoria di Rufina, in memoria della smemoratezza di tutti noi, che mai abbiamo eretto alle vittime del nostro benessere alcun monumento. Che Dio, se c’è, ci perdoni. Paolo Barnard

lunedì 21 gennaio 2013

Odontoiatria tossica

In questo video un odontoiatra denuncia alcune pratiche tossiche dell'odontoiatria classica e altro..

giovedì 17 gennaio 2013

Il metodo Di Bella è meglio della chemioterapia?

Guardate questa interessante intervista al prof. Giuseppe Di Bella che parla della cure che il SSN somministra agli ammalati di cancro e della cura ideata da suo padre confrontandone i risultati. A voi le conclusioni.


giovedì 21 giugno 2012

La TV ci inganna

Guardate questo film (fino alla fine: c'è una sorpresa) per rendervi conto di quanto possa essere  falsa e non credibile la televisione e i suoi contenuti.

martedì 12 giugno 2012

Cellulari cancerogeni, un'altra prova.. se ce ne fosse bisogno.

da http://dailystorm.it/2012/06/05/telefoni-cellulari-faranno-la-fine-delle-sigarette/


L’inchiesta sui telefoni cellulari. Le Ricerche scientifiche che hanno indicato il potenziale cancerogeno delle onde elettromagnetiche. Le contraddizioni dei produttori. I ripetitori in Italia. Consigli per un uso più sano del cellulare.

Ci sono cinque miliardi di utenti che utilizzano i telefoni cellulari. Mentre leggete questo articolo, è probabile che abbiate il vostro telefono in tasca o accanto a voi. Per quanto possa essere bello e necessario, sarebbe bene posarlo a qualche metro di distanza prima di proseguire nella lettura. Poco più di un anno fa Report mandò in onda l’ennesima inchiesta shock, per lo più snobbata dai media ufficiali. In questo documentario si cerca di capire se i telefoni cellulari siano nocivi alla salute o meno. Vediamo di fare un breve punto della situazione.

LA RICERCA – In letteratura scientifica è possibile trovare svariate ricerche che affermano di non aver trovato alcun nesso causa-effetto tra uso dei cellulari e cancro. Queste ricerche sono state spesso finanziate dalle stesse case produttrici di telefoni, e ai loro risultati se ne contrappongono molte che hanno evidenziato risultati opposti.
Nel 1993, il ricercatore statunitense Henry Laipubblicò uno studio sull’effetto delle onde elettromagnetiche dei telefoni cellulari sui ratti. Questi infatti, una volta esposti per 2 ore alle onde di un comune cellulare, presentavano tracce di DNA interrotto: un effetto biologico che può essere all’origine del cancro. 
Nel 1998, un altro ricercatore di nome Jerry Philips, replicò gli esperimenti effettuati sui ratti, utilizzando questa volte delle cellule umane. I risultati furono gli stessi: tracce di DNA interrotto.
Il 31 maggio 2011 il verdetto più importante: l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica un documento in cui viene ammesso che le radiazioni dei cellulari sono potenziali cancerogeni, di classificazione IARC 2B. Quindi, le onde elettromagnetiche vengono indicate come potenziali agenti cancerogeni, di cui si hanno ancora limitate evidenze per mancanza di dati.
Altri scienziati, come Lennart Hardell, hanno espresso maggiore preoccupazione riguardo alla correlazione cellulari-tumori in seguito ad altre ricerche svolte privatamente, ma sicuramente c’è ancora bisogno di chiarezza, e di una ricerca scientifica portata avanti con trasparenza e solidità.

CONTROSENSO – Al giorno d’oggi nessuno legge più il libretto d’istruzioni dei cellulari. Eppure, in alcuni di essi (come in quello dell’iPhone), viene consigliato di mantenersi ad una distanza di qualche centimetro quando si effettua o si riceve una chiamata. Si ritiene che, in questa maniera, una minore quantità di onde elettromagnetiche penetri all’interno del cervello.
Le ricerche per mettere a punto questo metodo d’utilizzo sono state finanziate dagli stessi produttori di telefoni, il che lascia qualche sospetto di non affidabilità. La domanda sorge spontanea: se non vi è alcuna evidente prova scientifica della cancerogenosità dei cellulari, perché consigliare di mantenerli ad una certa distanza?

ANTENNE – Anche le antenne ripetitrici emettono campi magnetici potenzialmente pericolosi per l’uomo, e i cellulari hanno bisogno proprio di molte di queste antenne. Per questo ce ne sono ad ogni angolo della città.
Nel 2002 l’ex Ministro delle Telecomunicazioni Gasparri fece approvare un decreto (Decreto Legislativo n. 198 del 4/9/2002) che prevedeva la possibilità di installare antenne per cellulari praticamente ovunque, senza rispettare alcun criterio urbanistico. Nel 2011 si sono poi alzati i limiti di emissione di onde da parte delle stesse.
L’ARPA (Agenzia Regionale  per la Protezione dell’Ambiente) è l’ente predisposto al controllo della sicurezza ambientale, ma basa le sue misure di sicurezza sulle indicazioni fornite dagli stessi produttori. Ancora una volta si verifica, quindi, un caso di conflitto di interessi: chi vende il prodotto interferisce con le scelte di chi dovrebbe controllarne la qualità.

LA STORIA SI RIPETE - Come è successo per le sigarette, ci vorranno anni per una completa chiarezza sulla questione. Potete anche solo immaginare quante scartoffie burocratiche vi siano dietro e quanti stratagemmi abbiano a disposizione le lobby per rallentare il processo.
In attesa di maggiori informazioni su i danni dovuti dalle onde emesse dai telefoni cellulari, che certo bene non possono fare come abbiamo visto, è bene tenere a mente qualche piccolo accorgimento nell’utilizzo che ne facciamo quotidianamente: chiamate sempre con l’auricolare (riduce l’esposizione alle onde del 90%), togliete il telefono dalle tasche appena potete, non dormite con il telefono acceso, o quantomeno vicino alla testa. Per i genitori: i bambini sono meno protetti rispetto agli adulti, quindi non sarebbe un male evitare di comprare il cellulare prima che compiano 10 anni, anche perché a quell’età non si capisce bene a cosa possa servirgli.

Valerio Tripodo

venerdì 13 aprile 2012

Nuvole modulate

Volevo farvi notare la strana forma delle nuvole sulla Sicilia, sembrano onde modulate con un centro di emissione più o meno al centro della regione.